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   Approfondimenti

Rav Nello Pavoncello: un maestro che nulla trascurava

Chaijm Vittorio Della Rocca

da: Rav Yehudà Nello Pavoncello, Un uomo, un maestro, Roma, giugno, 2000

 

 

 

     Conobbi il Moré Pavoncello in un’afosa giornata dell'agosto 1944. Roma era stata da due mesi liberata dai nazifascisti e la Brigata ebraica, che combatteva a fianco degli alleati, collaborava con l’istituzioni ebraiche e cittadini, l’opera di ricostruzione di quelle istituzioni maggiormente colpite dalle “Leggi  Razziali” e dall'occupazione nazista. Roma ebraica vedeva così riaprire la Scuola “Vittorio Polacco” con gli stessi soldati ebrei palestinesi, insegnanti a loro volta, con a fianco, mi piace qui ricordarli per nome: Settimio Di Castro, Mario Sed, la Morà Marino ed i tre giovani neo Maskilim: Cesare Tagliacozzo, Sergio Sierra e Nello Pavoncello. La mia classe era composta da elementi che non avevano frequentato la Scuola Polacco ed avemmo quali insegnanti di materie

ebraiche il Moré Elimèleh e il Moré Pavoncello.

    Ricordo ancora quest’ultimo al lato della lavagna, impeccabile, nonostante il forte caldo, nel suo vestito scuro con cravatta e scarpe lucidissime.

    Quel suo modo di presentarsi ci colpì e, chi come me lo ha frequentato sino alla fine dei suoi giorni, può ben dire che quella è stata la divisa nel corso della sua vita. Egli, pur non salendo mai in cattedra, riteneva il Rabbinato un sacro Magistero nel quale il MAESTRO nulla doveva trascurare. Egli sosteneva che chi dice Rabbino, dice Maestro, sia che insegni Torà con grande erudizione sia che La insegni a viva voce al popolo, ai giovani, persino in una pubblica piazza come il Ghetto. Egli insegnava al Collegio Rabbinico, pubblicava su Riviste scientifiche ebraiche e no, ma non disdegnava, anzi, tutt'altro, trascorrere anche lunghe ore al caldo o all'intemperie nella sua piazza, proprio come dice la Bibbia “In mezzo al mio popolo io sto”. Mentre conversava o rispondeva a spiegazioni che gli erano state richieste, non rispondeva neanche al saluto di amici e parenti; e quando questo gli si faceva notare, sosteneva di non essere il tipo per tanti formalismi e che tutti lo conoscevano e lo dovevano apprezzare per quello che effettivamente era.

    Il Moré Pavoncello iniziò dunque il suo lavoro prediletto, l’insegnamento, con una schiera di ragazzi, figli di deportati, come il sottoscritto, e figli dei suoi amici usciti “gravemente feriti” sia negli affetti che economicamente dalla catastrofe della Shoah. Insieme agli altri colleghi, ma soprattutto Lui, cominciò a contattare ad una ad una le famiglie dei suoi allievi, si rivolgeva alle nostre mamme chiamandole confidenzialmente “zie” perché, giustamente sosteneva che nelle Shemirat Mizvoth (osservanza delle Mizvoth) il ruolo della mamma era punto di riferimento costante.

    Ecco, quindi, negli anni del dopoguerra crescere in noi quell'entusiasmo per l’ebraico e l’Ebraismo che farà sì che quella modesta classe formata da ragazzi ai quali tutto mancava nel corso degli anni avrebbero costituito il gruppo di Morim e Moroth utili per la crescita di una coscienza ebraica.

    Gli piaceva ricordare episodi della vita del Collegio Rabbinico ai tempi di Rav Prato con insegnanti quali i Professori Artom e Cassuto z.l. Era affezionatissimo agli amici Cesare Tagliacozzo e Sergio Sierra ma uno spazio particolare nel suo cuore era riservato a Cesare Eliseo, con cui aveva trascorso, nella sua casa, ore di grande spensieratezza e cordialità.

    Era stato Rabbino a Verona, a Trieste ed a Siena ma era troppo romano per rimanere lontano dal suo ambiente e dai suoi Minhaghim di cui era molto geloso. Molti Suoi scritti riguardano infatti i testi ed i canti delle antiche, “5 scole" del ghetto di Roma nonché delle sinagoghe come quella di Trastevere a Vicolo dell'Atleta che lo ha visto appassionato studioso.

     Il Moré Pavoncello, secondo molti, aveva un non facile carattere, ed Egli confermava questa opinione sostenendo che almeno gli si riconosceva di avere un carattere. Egli non tollerava compromessi, e possiamo affermare senza timore di essere smentiti che “Non adulava il potente e non saliva sul carro del vincitore”.

     Il Moré Nello sentiva profondamente i legami d'affetto che lo vincolavano alle persone soprattutto ai suoi allievi e, per loro, si sottoponeva anche a sacrifici personali. Mi ha seguito, insieme ad altri Rabbanim sino alla Laurea Rabbinica, e simpatica era la sua espressione in giudaico-romanesco allorché io, presenti altre persone, esclamavo: “Ecco il mio Moré della Alef e Bet” e Lui rispondeva “e sì che ti ho insegnato soltanto quello?”

    Amava la Bibbia, amava la storia ed eravamo ancora giovanetti quando ci fece leggere tutto ciò che riguardava gli Ebrei a Roma dai tempi di Tito e ancor prima.

    Aveva iniziato come Hazan del Tempio spagnolo e mal sopportava quei Hazanim o allievi Hazanim che salivano in Tevà senza conoscere nei minimi particolari il Mahazor con le sue melodie.

     Non gli piaceva viaggiare e ciò gli precludeva contatti fisici con Erez Israel, penso che pochissime volte ci sia andato pur mantenendo in Israele frequenti contatti per motivi di studio. Amava Erez Israel e da buon sionista ci insegnava melodie riguardanti Gerusalemme, che nessuno di noi compagni ha mai dimenticato.

      E’ da lui che appresi per primo il famoso proverbio popolare “Le espressioni che escono dal cuore vanno dirette al cuore”. Posso affermare, senza essere smentito di avergli visto dar il meglio di se agli altri. Certo, in primis, per Lui esisteva l’insegnamento agli ebrei, infatti più volte affermava “Devo lavorare tanto per i miei ebrei che non ho tempo per gli altri”.

     Non si poteva definire un Principe di politica e di diplomazia, ma certo lo si può riconoscere un Re, per coerenza e onestà.

     Ricordo perfettamente, una volta che un Presidente di Comunità lo salutò affettuosamente posandogli una mano sulla spalla si voltò di scatto esclamando “ma chi gli dà tanta confidenza”, dopo alcuni mesi i due divennero grandi amici, perché avevano in comune due interessi: il bene della Comunità ed una grande passione per la Storia.

     Diffidava molto dei cosiddetti “furbi” ed a chi insisteva lodando la furbizia, più volte l'ho sentito rispondere “la furbizia spesso, è sinonimo di disonestà”.

     Il Maestro Pavoncello era di una disponibilità unica. Era molto restio a dare in prestito suoi libri; quando gli si chiedeva un libro per consultarlo preferiva fare egli stesso delle fotocopie e consegnarle entro breve tempo.

     Ricordo perfettamente alcune date salienti della sua vita. Il periodo che lo vide Maestro e Hazan, quando ricevette prima il diploma di Maskil quindi la Laurea da Chaham. Sono stato uno dei Rabbini celebranti le sue nozze ed inoltre ho, purtroppo, ho assistito alla sua malattia che non gli consentiva di partecipare  attivamente alla vita comunitaria, come egli, sempre così vivo e battagliero avrebbe voluto.

     Non aveva figli, ma si può dire che i suoi allievi gli riempivano la giornata come se figli ne avesse avuti tanti. La Comunità di Roma era in cima ai suoi pensieri. D’altronde Egli non aveva grandi hobby, non aveva mai praticato sport e le varie biblioteche erano i suoi stadi e le sue spiagge.

     Era un grande studioso degli Ebrei nel Lazio e fortunatamente ha scritto moltissime pubblicazioni su tale argomento. Si é sempre raccomandato, sino agli ultimi giorni che gli usi e i costumi degli ebrei romani non venissero alterati, e, tanto meno, cancellati, sostenendo che ogni nostra manifestazione, anche folkloristica che fosse, aveva delle solide basi culturali e storiche.

     “Caro Moré Pavoncello riconosco che queste poche parole per descrivere il Tuo carattere e la Tua personalità sono riduttive, ma reputo che nel definirTi RAV e soprattutto MORÈ, ho sempre voluto associare i vari aspetti della Tua cultura con il più grande dei valori per chi insegna Torà, cioè MAESTRO come sei sempre stato: una guida morale ed umana.

     Grazie per tutto ciò che mi hai dato"

 



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