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   Schede Storiche

Gli ebrei a Roma

 

   Gli ebrei a Roma sono forse i soli abitanti della città che possono vantare una presenza ininterrotta di oltre duemila anni: sulle rive del Tevere costituirono il primo insediamento ebraico in Italia e una delle comunità più antiche in Europa.

   Le prime testimonianze di contatti ufficiali tra Gerusalemme e Roma risalgono alle ambascerie inviate dai Maccabei a partire dal 161 a.e.v. per stringere patti di alleanza con i romani. Una comunità vi si era già stabilmente insediata tra il II e il I secolo a.e.v.: come i greci e i fenici, erano per lo più mercanti o schiavi liberati. Il nucleo originario si accrebbe con l’arrivo dei prigionieri portati a Roma tra il 63 e il 61 a.e.v., in seguito alle campagne di guerra di Pompeo in Giudea. I bassorilievi dell’Arco di Tito che raffigurano il corteo trionfale dell’imperatore, con il candelabro a sette bracci e gli arredi depredati dal Tempio, tramandano la memoria della conquista di Gerusalemme nel 70 a.e.v. Era l’inizio della dispersione degli ebrei nell’Impero e la moneta Judea capta, coniata per l’occasione, ricordava l’indipendenza nazionale perduta.

   La moltitudine di ebrei giunta a più riprese a Roma viveva sparsa in varie zone: Trastevere, Campo Marzio, Porta Capena, la Suburra, l’Esquilino: erano commercianti e artigiani, ma anche uomini di cultura, medici e maestri del Talmud.

   Gli ebrei si erano raggruppati in comunità testimoniate dai reperti archeologici della sinagoga di Ostia Antica e dalle catacombe ebraiche.

   L’ebraismo era una delle tante religioni che convivevano in quel crogiuolo di culture che era l’Impero e l’atteggiamento dei romani nei confronti degli ebrei era complessivamente tollerante.

La situazione iniziò a mutare radicalmente con la conversione di Costantino nel 312 e con l’editto di Milano che fece del cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero. Rimasti praticamente l’unico gruppo non cristiano dopo la progressiva conversione dei regni romano-barbarici tra il VI e il VII secolo, gli ebrei appaiono citati per la prima volta negli editti come “setta nefanda, gente contaminata” che segue un “dottrina perversa”. Nei Codici di Teodosio e di Giustiniano si andava già delineando la linea adottata dai papi nei secoli successivi: salvaguardare la vita della collettività ebraica in seno alla società cristiana, pur creando una separazione che ne limitava la libera espressione. In tal modo gli ebrei andavano assumendo nell’immaginario collettivo il ruolo pieno di valenze simboliche attribuito loro dalla Chiesa, anche se le restrizioni non furono sempre applicate con lo stesso rigore e non impedirono di fatto la frequentazione quotidiana tra ebrei e cristiani, i rapporti tra le due culture e, a Roma in modo particolare, l’inserimento del nucleo ebraico nell’ambito della città.

   Nel corso del XIII secolo gli ebrei si spostarono progressivamente sull’altra riva del Tevere, al di là del Pons Judeorum, dove nei secoli precedenti si erano già attestati nuclei ebraici di commercianti e artigiani richiamati e protetti dall’attività delle famiglie nobili che abitavano intorno al Portico d’Ottavia e al Teatro di Marcello. Anche qui compare una Ruga Judeorum, quella che poi diventerà la via Rua del ghetto, che collegava la zona prospiciente il monumento romano con la Platea Judea, l’altro polo di aggregazione del quartiere.

   I principi della separazione e della limitazione della vita ebraica stabiliti dalla Chiesa ripresero vigore sotto il pontificato di Innocenzo III: il IV Concilio Lateranense nel 1215 sancì per gli ebrei l’obbligo di portare un segno distintivo sugli abiti e il divieto di ricoprire pubblici uffici.

Nella seconda metà del secolo le predicazioni francescane a fini conversionistici e contro il prestito a interesse, una delle poche attività concesse agli ebrei, cui era vietato il possesso della terra, che provocarono spesso tumulti, l’istituzione dell’Inquisizione spagnola (1479) e l’accusa di omicidio rituale contro gli ebrei di Trento (1475) furono i segnali di un clima ideologico antiebraico che si stava inasprendo.

   Dopo il 1492, in seguito alle espulsioni da Spagna, Navarra, Portogallo e Sicilia, gli ebrei affluirono numerosi a Roma dove gli stessi papi che avevano lasciato mano libera all’Inquisizione spagnola permettevano un insediamento controllato nella città. La consistenza della comunità ebraica romana quasi raddoppiò con l’arrivo del gruppo sefardita più numeroso d’Italia. I catalani, i castigliani, gli aragonesi, i francesi, i tedeschi, i siciliani organizzarono in maniera autonoma rispetto ai romani le loro comunità nel Mercatello, quella parte della Platea Judea che avrebbe assunto in seguito il nome di piazza delle Cinque Scole, ove già dal XIV secolo aveva sede la sinagoga degli ebrei romani o Scola Tempio.

   Il 14 luglio 1555 con la bolla Cum nimis absurdum Paolo IV istituì il ghetto sull’esempio di quello creato a Venezia nel 1516, ma con una intransigenza controriformista priva di precedenti: “Poiché è assurdo e sconveniente al massimo grado che gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di essere protetti dall’amore cristiano e tollerati in mezzo a noi, mostrare tale ingratitudine verso i cristiani da oltraggiarli per la loro misericordia […] e poiché abbiamo appreso che a Roma e in altre località la loro sfrontatezza è giunta a tanto che essi si azzardano non solo a vivere in mezzo ai cristiani, ma anche nelle vicinanze delle chiese senza alcuna distinzione d’abito…”. Questa motivazione si traduceva in provvedimenti elencati in quindici punti: gli ebrei avrebbero dovuto vivere in un quartiere separato e munito di portoni, non avere più di una sinagoga, vendere tutti i beni immobili, non tenere servitù cristiana, portare il segno distintivo e, come attività economica, praticare il prestito a un tasso imposto e la sola arte strazzariae seu cenciariae, il mestiere di venditore di stracci. L’adattamento degli ebrei romani a questa situazione si protrasse per tutto il secolo: le Scole furono ridotte a Cinque (Tempio, Catalana, Castigliana, Siciliana e Nova) e raggruppate in un unico edificio, le botteghe e le abitazioni fuori dal claustrum progressivamente abbandonate.

   L’area del ghetto di Roma era la più malsana ed insalubre della città, costantemente inondata dalle acque del Tevere. Un muro circondava la zona e 5 porte venivano aperte solo durante il giorno per permettere agli ebrei di esercitare le poche attività a loro consentite. Nonostante le precarie condizioni di vita, il ghetto era organizzato al suo interno per far fronte a qualunque necessità: l’Università degli ebrei, con le sue strutture amministrative, manteneva i rapporti ufficiali con il papato: le Cinque Scole svolgevano la funzione di luogo di preghiera, di studio e di riunione; le trenta Confraternite si occupavano di ogni tipo di attività sociale, culturale e religiosa, dalle doti per le fanciulle povere alla gestione dei cimiteri, dall’istruzione dei giovani all’assistenza agli anziani e persino una, la Yerushalaim, aveva il compito di inviare oboli in Terra d’Israele, mantenendo vivo il legame secolare tra Roma e Gerusalemme.

   Le idee di uguaglianza e libertà propugnate dalla Rivoluzione francese non avevano trovato insensibili gli ebrei romani: quando tra il 1798 e il 1799 le truppe napoleoniche proclamarono la Repubblica romana, gli abitanti del ghetto accorsero numerosi ad arruolarsi nella guardia civica e piantarono un albero della libertà a piazza delle Cinque Scole. Tuttavia per gli ebrei di Roma l’emancipazione era ancora lontana: il 14 gennaio 1814 i francesi abbandonarono la città e, pochi giorni dopo, vi fece ritorno Pio VII, in pieno clima di Restaurazione. Sotto il pontificato di Leone XII, che nel 1823 aveva concesso un piccolo allargamento del ghetto, includendovi l’isolato di Via della Reginella, alcune famiglie, tra le poche che ne avevano la possibilità, iniziarono a trasferirsi in Toscana e nel Lombardo-Veneto, in cerca di migliore fortuna.

   Grandi speranze di riforma furono riposte in Pio IX che, agli inizi del suo pontificato, prese dei provvedimenti per ridurre il disagio degli ebrei, attraverso frequenti elargizioni di pane o denaro e la soppressione delle prediche forzate, cui gli ebrei erano stati sottoposti nei secoli precedenti.

   Un notevole aiuto venne anche da un popolano romano, Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, che nel 1847 organizzò una dimostrazione di solidarietà nei confronti degli ebrei, cui parteciparono oltre duemila romani. Il 17 aprile 1848, alla vigilia della Pasqua ebraica, che ricorda la liberazione dalla schiavitù in Egitto, Pio IX fece abbattere le porte e le mura del ghetto, tra l’esultanza della popolazione. Il cammino verso la definitiva equiparazione agli altri cittadini maturò nel 1849 attraverso la Repubblica romana di Mazzini, Saffi e Armellini, quando gli ebrei romani entrarono per la prima volta in contatto con i numerosi patrioti ebrei che affluivano in città dalle altre regioni per sostenere il regime democratico: insieme a Garibaldi giunsero a difendere il Vascello e vi persero la vita Giacomo Venezian e Ciro Finzi. Con il ritorno di Pio IX gli ebrei furono nuovamente obbligati a risiedere nel ghetto, pur senza più cancelli, e sottoposti a tutti i precedenti tributi. Nel 1864 anche a Roma si verificò un rapimento a scopo di conversione forzata, come nel caso Mortara, avvenuto a Bologna nel 1858: la vittima era un giovane garzone di calzolaio di undici anni, Giuseppe Coen.

   Il 20 settembre 1870 la breccia di Porta Pia segnò contemporaneamente la fine del potere temporale dei papi, l’abolizione definitiva del ghetto e la completa equiparazione degli ebrei romani agli altri cittadini: come segno dei tempi, Samuele Alatri, presidente della Comunità ebraica, ed uno dei maggiori artefici della sua emancipazione, fu eletto consigliere comunale e successivamente deputato.

   I primi decenni di libertà furono tutt’altro che facili per gli ebrei romani: pochi avevano i mezzi per accedere agli studi universitari, per esercitare professioni fino ad allora precluse o per aprire un negozio di tessuti al di fuori del ghetto e si trovavano in forte ritardo rispetto alla borghesia italiana in ascesa; i piccoli commercianti, i venditori ambulanti, i rigattieri, ed erano la maggioranza, restavano legati alle attività sorte da secolari imposizioni. Problemi di identità e di integrazione nella vita cittadina erano legati al progressivo abbandono del quartiere, ormai divenuto inabitabile per il degrado, che finì con l’essere completamente demolito tra il 1886 e il 1904, secondo le previsioni del nuovo piano regolatore di Roma Capitale.

   All’interno della vita comunitaria si dovette sopperire allo sfaldamento del microcosmo autosufficiente che era stato il ghetto: nel 1882 l’Università israelitica (Comunità ebraica) si diede uno statuto, che ne riorganizzò la struttura in armonia con i tempi, prevedendo cariche elettive e contributi per sottoscrizione; le antiche confraternite si accorparono per dare origine alla “Deputazione centrale israelitica di carità”, il primo nucleo dei servizi sociali attuali. Nel 1904, con l’inaugurazione del Tempio sorto sull’area del ghetto demolito e visibile da tutti i punti panoramici di Roma, l’ebraismo romano dava una nuova immagine di sé alla città, che nel 1907 avrebbe avuto un sindaco ebreo di grande prestigio, Ernesto Nathan.

   Nel 1938 iniziò il periodo della persecuzione fascista e nazista: le leggi razziali, l’emarginazione dal lavoro e dalla scuola. Durante la seconda guerra mondiale Roma fu dichiarata Città Aperta per la presenza del Vaticano, ma rimase sotto l’occupazione nazista dal settembre 1943 fino al giugno 1944. Il 16 ottobre 1943, dopo una richiesta di 50 kg. d’oro come riscatto risultato inutile, i nazisti deportarono oltre 2000 ebrei romani. Dei deportati del 16 ottobre solo 16 sopravvissero. Su 40.000 ebrei in Italia ne furono deportati più di 7000, circa il 20%.

   La vita e la riorganizzazione della Comunità riprende nel dopoguerra con un intenso lavoro di ricostruzione che ha dato origine ai servizi culturali, educativi e religiosi attuali.

   Nel 1948 la fondazione dello Stato di Israele, salutata da una festosa e simbolica cerimonia all’Arco di Tito, ha rafforzato i secolari rapporti tra gli ebrei romani e la terra d’origine. A Roma non manca l’apporto pluralistico di tradizioni ebraiche differenti, portate dagli ebrei ashkenaziti, provenienti dall’Europa centro-orientale, e dagli ebrei libici, confluiti numerosi nella città dopo le persecuzioni del 1956 e del 1967.

   In un clima di pluralismo democratico e di rispetto delle minoranze, la collettività ebraica romana fa sentire la voce della propria presenza millenaria nell’ambito della vita cittadina attraverso i suoi servizi al pubblico e una vivace attività culturale, svolta spesso in collaborazione con gli enti nazionali e locali.

                                                                                   

 

                                                             Bice Migliau

 

 

 

 

Da: Migliau Bice, Procaccia Micaela, Lazio. Itinerari ebraici. I luoghi, la storia, l’arte, Marsilio, Venezia, 1997

 



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