IL DIALETTO GIUDAICO-ROMANESCO
Bice Migliau
da: Migliau Bice e
Procaccia Micaela, Lazio. Itinerari ebraici. I luoghi, la
storia, l’arte, Marsilio, Venezia, 1997
Il visitatore dell'area dell’antico
ghetto può ancora oggi cogliere nei discorsi delle persone che
si incontrano nei pressi del Portico d'Ottavia o si affollano in
capannelli vicino al Tempio, qualche parola sconosciuta e un
accento, una cadenza particolare che suona diversa all'orecchio,
rispetto alla comune “calata” romanesca. E’ il dialetto
giudaico-romanesco che spesso affiora ancora nei discorsi degli
ebrei romani, tenuto vivo dalla tradizione familiare e dalle
diverse attività culturali (spettacoli, corsi) che lo vedono
protagonista. Fino alla seconda metà del Cinquecento gli ebrei
romani si esprimevano nel volgare comunemente parlato nella
città, arricchendolo con termini ebraici, spesso, ma non
esclusivamente, riferiti alla vita religiosa e professionale. Di
tale particolarità di linguaggio ci viene fornita una vivace
testimonianza nei verbali di alcuni processi cinquecenteschi che
vedono ebrei romani imputati o testimoni.
La chiusura del
ghetto dal 1555 sancì un destino diverso anche per i due
volgari: il romanesco comune, subendo l’influenza del toscano,
che era già penetrato nella città con i papi rinascimentali
fiorentini, perse a poco a poco l'originale connotazione
meridionale, mentre gli ebrei - diluiti i contatti con
l'evoluzione del linguaggio nella città - mantennero inalterata
nel recinto del ghetto l'antica parlata le cui caratteristiche
anzi si rafforzarono, forse anche in seguito all'arrivo dei
profughi dall'Italia meridionale. Dentro le mura del ghetto
aumentò il ricorso al lessico ebraico, i cui termini assunsero
un valore di “difesa”: servivano a non farsi capire dagli altri,
per esempio dai
“birri” del papa.
Elementi meridionali sono numerosi nel giudaico-romanesco:
per esempio la sonorizzazione della dentale
t nella
formazione del femminile plurale (berakhot,
“benedizioni”, diventa
berachòdde, con
una doppia pluralizzazione ebraica e italiana); “io ho” si
dice aio; “mondo”
è munno,
“secondo” diventa
secunno e via dicendo. Molto frequenti sono le forme del
tipo madrema, patreto,
figlievi per “mia madre”, “tuo padre”, “i vostri figli”.
Inoltre il giudaico-romanesco volge spesso al maschile i
plurali femminili: li
busti, “le buste”. Due suoni non hanno corrispondenza
nella lingua italiana: quello della consonante ebraica
‘ain (ngkaìn
nella
caratteristica pronuncia degli ebrei romani) e quello della
chèdd. Il primo è
una specie di ng
fortemente nasalizzato e si applica alle parole ebraiche (ngkavòn,
“peccato”) e alla pronuncia di quelle italiane:
sangue, “sangue”.
L’altro è una h
aspirata con forza come in
chatàn, “sposo” e
Pèsach, “Pasqua”.
Nel 1868, due anni prima della definitiva apertura del
ghetto, nacque a Roma Crescenzo Del Monte, il più celebre
poeta giudaico-romanesco, al quale è oggi intitolata anche
una strada di Trastevere. Appassionato cultore di tradizione
romane ed ebraico-romane, ammiratore del Belli, studioso del
dialetto degli ebrei romani, pubblico due raccolte di
sonetti, i Sonetti
giudaico-romaneschi (1927), i
Nuovi sonetti
giudaico-romaneschi (1935); nel 1955, quasi vent’anni
dopo la sua morte (1936), uscirono i
Sonetti postumi.
Un’antologia delle tre raccolte (ormai difficili da
reperire) è stata pubblicata nel 1977 dall’editore Beniamino
Carucci.
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